“ICARIA, IKARIA. Psicofarmaco” – Un viaggio filosofico nella psiche moderna tra disillusione e ironia

“ICARIA, IKARIA. Psicofarmaco” – Un viaggio filosofico nella psiche moderna tra disillusione e ironia

Autori: Ennio Lagarpesi, Gianna Pirolese
Casa Editrice: Gruppo Albatros Il Filo
Collana: Nuove Voci
Anno di pubblicazione: 2022

Il romanzo come specchio dell’anima e campo di battaglia delle idee

ICARIA, IKARIA non è un semplice romanzo. È un’opera stratificata, colta, visionaria, talvolta ermetica, che si presenta come un mosaico narrativo e filosofico in cui nulla è lineare, nulla è scontato. È un libro che sfida attivamente il lettore, lo provoca, lo chiama a partecipare a un’esplorazione intellettuale e interiore che non ha alcuna garanzia di approdo. Il romanzo è infatti soprattutto questo: un cammino dentro l’inquietudine, un’indagine nella psiche, un campo di battaglia dell’anima dove ogni certezza viene messa in discussione.

Il protagonista, un diplomatico stanco e disilluso, è ritratto in una fase sospesa dell’esistenza: si trova in una clinica, in attesa di una diagnosi medica che fa da metafora a una diagnosi più profonda e impalpabile – quella dell’identità, della coscienza, della storia personale. È lì che, in una sorta di lunga sospensione temporale, inizia un dialogo senza fine con se stesso, con Dio, con il Tempo, con il Nulla.

Il testo ci mette in contatto con la psicologia del crepuscolo, quella che affiora quando l’uomo non ha più illusioni da difendere ma troppe domande da contenere. L’autore disegna una mente lucida e al tempo stesso destabilizzata, attraversata da flash di ironia, attacchi di malinconia, digressioni erudite e risonanze emotive che spesso sfociano in un vero e proprio flusso di coscienza. La clinica è lo scenario fisico, ma il vero luogo d’azione è la mente: una mente labirintica, sovraffollata, a tratti claustrofobica, sempre in bilico tra razionalità e allucinazione, tra riflessione e deriva.

La grande forza dell’opera sta nel rappresentare la crisi di senso come condizione strutturale dell’intellettuale contemporaneo. Il protagonista non è semplicemente un uomo malato, è un uomo in cerca: di un ordine morale, di una coerenza interiore, di una verità che non sia solo dogma o retorica. E in questa ricerca si confronta con tutto ciò che ha costituito i pilastri della cultura occidentale: il pensiero filosofico, la tradizione religiosa, i grandi testi sacri e la fragilità stessa del linguaggio umano.

Il titolo ICARIA, IKARIA ha una duplice valenza evocativa: richiama l’isola greca simbolo di lontananza e pace, ma anche la leggenda di Icaro, l’uomo che volò troppo vicino al sole e cadde. È proprio questo il nodo centrale: la tensione tra il desiderio di libertà e la consapevolezza della caducità, dell’errore, del limite. Il protagonista è un nuovo Icaro, spinto dal bisogno di conoscere, ma logorato dalla fatica di capire. La sua mente è un cielo percorso da voli arditi e cadute rovinose.

La riflessione psicologica è costante e profonda. Si parla di ansia esistenziale, di alienazione professionale, di crisi identitaria e sessuale, di depressione silenziosa e disadattamento sociale, di quei dolori invisibili che non trovano nome nei manuali clinici ma che abitano milioni di vite. Il romanzo non medicalizza mai la psiche, ma la mette in scena, ne fa teatro e confessione. L’uomo osserva se stesso con lucidità e sarcasmo, si diagnostica un’ulcera e poi si accorge che il vero male è la mancanza di senso. E il senso, forse, sta proprio nel continuare a cercarlo.

Il testo esplora anche la confusione tra malattia dell’anima e malattia del corpo, tra spiritualità e chimica cerebrale, tra destino e neurotrasmettitori. Il protagonista si chiede se basterebbe una pillola per essere felici. Se il dolore dell’esistere sia soltanto una questione ormonale. Se le nostre passioni, i nostri rimpianti, le nostre colpe, siano davvero parte di noi o effetti collaterali della serotonina. In questo senso, ICARIA, IKARIA è anche un romanzo psicanalitico e biopolitico, che interroga la medicina moderna con la stessa ferocia con cui interroga la teologia antica.

Infine, è un libro che parla del tempo che scorre, del corpo che invecchia, dei sogni che si sbiadiscono, delle promesse mancate. Ma lo fa senza pietismo. Con uno sguardo acuto, ironico, a tratti disperato, ma sempre lucido. È il romanzo di chi non cerca più risposte facili, ma non rinuncia alla domanda più difficile: “Chi sono io, adesso, qui?”

Una struttura non lineare, una mente che si disgrega, un mondo che collassa

Il romanzo ICARIA, IKARIA è costruito su un impianto narrativo volutamente destrutturato, simbolico e circolare. Non segue la linea retta della classica narrazione, ma si sviluppa come un labirinto interiore, uno specchio rotto in cui ogni frammento riflette un pensiero, un trauma, un ricordo, un’allucinazione. La forma è quella di un “tarocco narrativo”: ogni capitolo è associato a una carta degli Arcani Maggiori – figure archetipiche che incarnano stati d’animo, tensioni psicologiche, svolte esistenziali. È come se il protagonista, attraverso questo mazzo divinatorio della vita, cercasse di leggere il proprio destino in una situazione di sospensione, incertezza e smarrimento.

Ogni giornata – dal lunedì alla domenica – diventa una tappa in un viaggio mentale che non si muove nello spazio, ma nel tempo interiore, nella memoria, nel sogno, nell’incubo, nella riflessione ossessiva. Il protagonista non cammina nel mondo: scende a spirale dentro sé stesso. Il lettore lo accompagna in un crollo progressivo della razionalità, in cui la realtà esterna – la clinica, i colloqui, i ricordi – si fonde in modo sempre più indistinto con la realtà interiore: una psiche lacerata, disillusa, profondamente consapevole della propria solitudine.

A livello psicologico, ICARIA, IKARIA rappresenta l’esplorazione di uno stato borderline tra lucidità e follia, tra coscienza e delirio. Il protagonista – colto, intelligente, ironico – vive un lento naufragio nella propria mente. Non è la malattia a devastarlo, ma la consapevolezza dell’assurdo, della contraddizione profonda tra ciò che la vita pretende e ciò che l’anima riesce a offrire. Si tratta di una crisi esistenziale portata al punto massimo: un uomo che non crede più nei sistemi, nei dogmi, nelle istituzioni – ma nemmeno in sé stesso. E allora si rifugia nella parola, in un flusso di coscienza denso e torrenziale che diventa l’unico argine contro l’implosione.

La scrittura riflette fedelmente questa disgregazione psichica. È densissima, stratificata, carica di citazioni filosofiche, religiose, letterarie: da Kant a Spinoza, da Aristotele a Confucio, dalla Torah al Vangelo, passando per Shakespeare, la Bibbia, Pascal, Emily Dickinson. Ma non si tratta di un’esibizione di cultura: queste citazioni diventano meccanismi difensivi, strumenti di sopravvivenza intellettuale in un mondo che non ha più senso. È come se il protagonista cercasse, attraverso il pensiero degli altri, di dare voce al caos che lo abita. Ma più legge, più riflette, più si inabissa.

Lo stile è volutamente sofisticato, colto, ironico, barocco: ogni frase è cesellata, ogni dialogo è una schermaglia filosofica. Ma sotto l’eleganza del linguaggio, si avverte un’urgenza disperata. È il grido di chi pensa troppo, di chi sente troppo, di chi cerca nel pensiero la cura di un’anima ferita. Il testo diventa così un diario clinico dell’intellettuale moderno, una confessione che fonde razionalità e disperazione. Il tono ricorda a tratti il monologo di Molloy di Beckett o l’incedere interiore dell’Ulisse di Joyce, ma con una peculiarità tutta italiana: una malinconia colta, un’ironia amarissima, una nostalgia per ciò che non è mai stato.

Nel cuore di questo romanzo c’è una verità psichica cruda e universale: quando la mente cerca troppo a lungo il senso, rischia di smarrire se stessa. Il protagonista non è pazzo, ma lucidamente in crisi. Il suo collasso non è la malattia, ma la sovrabbondanza di pensiero, l’incapacità di semplificare, la vertigine di chi osserva troppo da vicino le contraddizioni del mondo. Tutto ciò che lo circonda – i rituali della carriera diplomatica, i cocktail, i discorsi pubblici, la burocrazia – gli appare come una messinscena vuota. E la sua mente, una volta abbattute tutte le illusioni, rimane sola davanti al nulla.

Il suo mondo crolla perché non può più fingere. E quando si smette di fingere, si precipita in fondo a se stessi. Questo è il viaggio di ICARIA, IKARIA: la discesa negli abissi del pensiero, nella solitudine dell’intelligenza, nella disperazione dell’identità. Un viaggio senza garanzie di ritorno, ma pieno di verità scomode e luminose.

Religione e morale: una demolizione a colpi di logica, ironia e inquietudine psichica

Uno degli aspetti più radicali e provocatori dell’opera è il suo rapporto con la religione e, più in generale, con il concetto stesso di morale. L’autore – attraverso la voce lucida, disillusa e logorroica del protagonista – compie una vera e propria smontatura del discorso teologico-morale occidentale, non con l’intento sterile di distruggere, ma per capire se sia possibile ancora oggi trovare in Dio e nella morale tradizionale un punto d’appoggio per una vita autentica.

Il protagonista si accanisce sulla Bibbia, sui Vangeli, sui Comandamenti, sui dogmi. Li legge, li rilegge, li interroga come farebbe un ex credente rimasto orfano di fede. Ma non c’è astio gratuito né blasfemia compiaciuta: c’è, invece, il dramma intimo e intellettuale di chi ha creduto e non riesce più a credere, di chi si è nutrito della religione come unica bussola morale e adesso la trova contraddittoria, fallace, umanamente costruita e quindi fragile.

A livello psicologico, questa parte del romanzo è potentissima: il lettore assiste al doloroso processo di de-costruzione dell’Assoluto. L’uomo – stanco, malato, solo – non rinnega Dio per moda o per ideologia, ma perché non riesce più a conciliare il Dio dell’amore con il Dio della violenza, il Dio della grazia con quello dell’ira. La Bibbia, nelle sue mani, diventa un oggetto esplosivo: ogni pagina che sfoglia produce una ferita. Cita l’Esodo, Paolo, Luca, Ezechiele… e in ogni citazione cerca una coerenza, una giustizia, una verità ultima. Ma non la trova.

Questo smarrimento lo conduce a un dissidio profondo tra fede e ragione, tra spirito e coscienza, tra dogma e esperienza. È come se la sua mente si rifiutasse di accettare qualsiasi verità imposta, proprio mentre il suo cuore continua a desiderarne una. Questo conflitto è il motore della sua crisi psicologica: una crisi spirituale che si manifesta nei sintomi dell’ansia, della malinconia, dell’irrequietezza esistenziale. Non si tratta solo di dubbi religiosi: si tratta di un’anima che ha perso il suo appiglio metafisico e vaga nel vuoto delle possibilità.

Il protagonista si domanda se l’uomo è davvero libero, se può scegliere il bene, se può davvero meritare la dannazione o la salvezza. Si chiede se i suoi desideri, le sue inclinazioni, la sua sessualità, siano una colpa o una naturale manifestazione dell’essere umano. E qui la riflessione si fa ancora più tagliente: la morale viene vista come una costruzione culturale che spesso ha premiato l’ipocrisia, represso l’autenticità e aggravato il senso di colpa, soprattutto nei temi legati al corpo, al piacere, al peccato.

Il tono con cui il protagonista affronta questi temi è caustico, ma anche dolorosamente autoironico. Si percepisce che sotto il sarcasmo – che cita Sant’Agostino, Spinoza, San Paolo, i teologi del Medioevo – c’è una profonda ferita spirituale. È come se la mente cercasse di razionalizzare ciò che il cuore continua a non accettare: la morte, l’ingiustizia, la sofferenza degli innocenti, l’apparente assenza di senso. Per questo l’attacco alla religione non è mai solo ideologico: è psichico, intimo, urgente. È un grido dell’anima, mascherato da sofismo.

Il protagonista si interroga anche sulla natura stessa della coscienza morale. È davvero una voce divina? O non sarà, piuttosto, il prodotto di una lunga sedimentazione culturale, familiare, collettiva? I suoi pensieri lo portano a riscrivere, ironicamente, i Comandamenti, a citare in parallelo il Vecchio e il Nuovo Testamento, evidenziando le contraddizioni, i paradossi, le incongruenze. E mentre smonta il sistema morale tradizionale, non riesce tuttavia a sostituirlo con un nuovo ordine. Resta il vuoto. Ed è quel vuoto – spirituale, valoriale, affettivo – che mina la sua salute mentale.

La sua è una crisi da “eccesso di coscienza”, da intelligenza portata all’estremo, che diventa zavorra. La religione, che una volta era rifugio e promessa, diventa una prigione concettuale. Eppure, proprio in questa battaglia col sacro, il protagonista mostra la sua umanità più profonda. Non rinuncia del tutto a Dio: ne chiede conto, lo interroga, lo accusa, come Giobbe. È un credente ferito, un filosofo affamato di assoluto, un uomo solo davanti al Mistero.

Alla fine, il romanzo lascia aperta ogni risposta. Ma mostra con spietata lucidità quanto sia devastante per l’animo umano perdere la fede in ciò che un tempo lo sosteneva. E quanto sia difficile, doloroso e necessario cercare, tra le macerie della tradizione, un modo nuovo per abitare il mondo.

Uno stile teatrale e filosofico, che sfida il lettore e lo invita a guardarsi dentro

La prosa di ICARIA, IKARIA non è semplicemente uno strumento narrativo: è essa stessa protagonista del romanzo, un corpo vivo e multiforme che si muove tra le pieghe della mente del protagonista. È un linguaggio che non accompagna, ma incalza. Non consola, ma interroga. Il lettore non viene mai lasciato passivo: ogni pagina è un campo di prova, una provocazione, una sfida.

Il testo si presenta come un flusso di coscienza stratificato e molteplice, denso di citazioni filosofiche, rimandi culturali, allusioni dotte, giochi linguistici, battute ironiche e cambi improvvisi di tono. Si passa, senza soluzione di continuità, dalla nostalgia alla satira, dalla confessione al paradosso, dalla malinconia all’assurdo. È una scrittura polifonica, dove l’introspezione si mescola alla filosofia, il trauma personale si traveste da disputa teologica, il disincanto si vela di lirismo.

L’effetto complessivo è quasi teatrale, come se ogni capitolo fosse un monologo interiore pensato per essere recitato sul palcoscenico dell’intelletto umano, con un ritmo incalzante, una mimica mentale ricca, una tensione costante tra parola e silenzio. Si sente, leggendo, il peso dell’esperienza, il respiro di una voce che ha conosciuto il mondo, la cultura, le illusioni e il disinganno.

Ma ciò che rende davvero unico lo stile di ICARIA, IKARIA è la sua capacità di costringere il lettore a prendersi delle responsabilità. Non ci si può limitare a “seguire la storia”, perché qui la storia non è lineare, e la narrazione non è mai compiuta in modo canonico. Ogni passaggio chiede un’opinione, ogni digressione chiama a confronto, ogni battuta è un pungolo. Il lettore viene letteralmente messo in discussione, chiamato a esporsi, a pensare, a contraddirsi.

Ecco perché leggere questo romanzo non è un’esperienza da prendere alla leggera. Richiede tempo, attenzione, pazienza, e soprattutto una disponibilità al dubbio. È un libro che si oppone al consumo veloce, all’intrattenimento spensierato. Ma in cambio, offre qualcosa di raro: l’esperienza di una mente che pensa davvero. Che sente, che si frantuma, che lotta per trovare un senso in mezzo alla confusione del mondo.

Leggere ICARIA, IKARIA significa avventurarsi in un territorio poco frequentato dalla narrativa contemporanea: quello in cui la letteratura torna a essere filosofia incarnata, riflessione viva, esistenza ragionata. È un libro per chi ha smesso di credere nelle risposte facili, per chi ha il coraggio di guardare dentro se stesso e affrontare le proprie contraddizioni, le proprie paure, le proprie illusioni.

È un romanzo per chi ha amato Dostoevskij, Camus, Beckett, Joyce. Per chi cerca in un libro non solo una storia, ma un’eco profonda, un’interlocuzione interiore. Per chi sente il bisogno di rallentare, fermarsi, e lasciarsi attraversare da una voce intensa, ironica, disillusa, eppure ancora disperatamente umana.

ICARIA, IKARIA non si legge: si attraversa. E alla fine, qualcosa in noi sarà cambiato.


Recensione di Davide Cipollini

ICARIA, IKARIA è un libro-rivelazione, nel senso più profondo del termine: un’opera che non intrattiene ma interroga, non consola ma costringe a pensare. È una sfida filosofica e intellettuale, costruita su una narrazione che travalica i confini del romanzo tradizionale per diventare discorso, dialogo socratico, autocoscienza.

Lagarpesi e Pirolese offrono un testo stratificato e labirintico, a tratti quasi da leggere con un dizionario a portata di mano, ma che ricompensa il lettore con riflessioni taglienti e momenti di lucida poesia. La loro voce è rara nel panorama letterario italiano contemporaneo, perché osa andare dove pochi osano: nel territorio scomodo delle grandi domande senza risposte.

Un romanzo che consiglio a chi non ha paura di perdersi, a chi cerca nella lettura un viaggio, non un approdo. A chi ama la filosofia, l’ironia e l’inquietudine.

Davide Cipollini

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