Il cerchio chiuso – Quando la fede diventa prigione

📖 Il cerchio chiuso – Quando la fede diventa prigione

Recensione a cura di Davide Cipollini

Viviamo in un’epoca in cui il concetto di educazione è spesso al centro del dibattito pubblico e privato. Ma troppo spesso quel termine, anziché indicare un percorso di crescita e apertura, viene brandito come uno scudo dietro cui nascondere la paura del cambiamento, o peggio ancora, come un’arma di controllo. In questo contesto, leggere un romanzo come Il cerchio chiuso di Nicoletta Bosio significa immergersi in una riflessione potente e scomoda sul confine – sottile e pericoloso – che separa l’insegnamento dall’indottrinamento, la guida dall’imposizione, la fede autentica dall’ossequio cieco.

Pubblicato nel 2024 da Accornero Edizioni, Il cerchio chiuso è molto più di una semplice narrazione: è una sfida. Un grido sommesso ma implacabile contro l’ipocrisia di certi ambienti religiosi, contro la rigidità educativa che soffoca l’identità invece di coltivarla, contro quel silenzioso dolore che spesso si nasconde tra i banchi di scuola, dentro le mura di casa, nei confessionali delle chiese.

Nicoletta Bosio ci offre un’opera letteraria di rara onestà, capace di toccare corde profonde senza mai scadere nel melodramma. La sua scrittura è diretta, sincera, priva di fronzoli ma densissima di significato. Ogni parola sembra scolpita nella verità dell’esperienza, e ogni pagina lascia addosso il peso di una memoria collettiva, quella di tutti coloro che, almeno una volta nella vita, si sono sentiti costretti a scegliere tra l’amore dei propri cari e la libertà di essere se stessi.

Il cerchio chiuso è un romanzo che ferisce, ma lo fa per guarire. È un pugno nello stomaco e, al tempo stesso, un atto di resistenza letteraria, civile, spirituale. Un romanzo necessario, oggi più che mai.

🙏 La fede, l’obbedienza e la voce del dubbio

Maria, la protagonista de Il cerchio chiuso, è una ragazzina acuta, sensibile, con una vivida intelligenza emotiva e intellettuale. Ma nel mondo in cui è costretta a crescere, la sua mente aperta e la sua naturale propensione a interrogarsi sulle cose diventano una colpa. Le domande che pone – su Dio, sul dolore, sul senso della vita – non ricevono risposte, ma censure. In un ambiente dominato da una religione ridotta a dogma e rituale, dove l’obbedienza cieca viene scambiata per fede, ogni dubbio diventa eresia, ogni tentativo di comprendere è visto come una deviazione.

La psicologia di Maria è trattata da Nicoletta Bosio con una delicatezza rara. L’autrice non racconta semplicemente un’adolescente ribelle, ma entra nel cuore di una crisi identitaria profonda, che nasce dalla perdita, dal lutto, dal senso di ingiustizia. Dopo la morte improvvisa del padre – figura affettuosa e probabilmente l’unico alleato emotivo – Maria si ritrova sola, con una madre che, anziché ascoltarla, cerca di salvarla… condannandola.

Benedetta, infatti, non è un personaggio monodimensionale. È una madre ferita, sopraffatta dal dolore e dalla responsabilità, che si aggrappa alla fede con disperazione. Ma quella fede, per lei, non è una fonte di conforto: è una corazza rigida, che impone anche a sua figlia. Trasforma la religione in una gabbia, la spiritualità in controllo. Ogni gesto di Maria, ogni rifiuto di ricevere la comunione, ogni tic nervoso – che è una reazione psicosomatica evidente a chiunque voglia davvero vedere – viene interpretato non come sintomo di disagio, ma come segnale di deviazione morale.

E qui si innesta uno dei temi più forti e dolorosi del romanzo: la negazione dell’ascolto. Maria non ha il diritto di esprimere il proprio smarrimento. Nessuno accoglie il suo dolore, né riconosce il suo trauma. Ogni emozione viene reinterpretata sotto la lente deformante della dottrina: se soffri, è perché non preghi abbastanza. Se ti ribelli, è perché il demonio ti tenta. Se dubiti, è perché hai bisogno di più disciplina.

Bosio costruisce un conflitto interiore autentico e crudele. Maria inizia a credere di essere sbagliata. I suoi tic – toccarsi il viso, soffiare sulle mani, contrarre le spalle – diventano il linguaggio silenzioso di un corpo che non può parlare. La mente cerca una via d’uscita, ma il contesto la chiude in un cerchio sempre più stretto, fino a farla sentire colpevole per il semplice fatto di esistere con un pensiero autonomo.

L’invio al collegio religioso Sant’Eufemia è la naturale conseguenza di un sistema educativo che ha perso la bussola dell’empatia. È il trionfo dell’autoritarismo travestito da amore. La scuola non si pone l’obiettivo di formare persone pensanti, ma anime sottomesse. Non si tratta più di crescere nella fede, ma di sopravvivere nella repressione. E Maria, schiacciata tra la volontà di compiacere la madre e il bisogno di restare fedele a sé stessa, inizia a costruire la sua maschera. Una maschera fatta di finzione, adattamento, mimetismo. Il prezzo da pagare? L’autenticità. La libertà. L’infanzia.

Il cerchio chiuso, in questa fase del romanzo, assume un valore quasi clinico: è il simbolo di una spirale psicologica che inizia con una perdita e si chiude con la negazione dell’identità. Eppure, nonostante il dolore, la protagonista resiste. Non si spegne. In lei sopravvive una voce, sepolta ma testarda, che continua a chiedere: “Chi sono io, oltre quello che volete farmi diventare?”

Un romanzo che tocca l’anima, che scava negli angoli bui dell’educazione religiosa rigida, e che racconta con lucidità disarmante quanto possa essere doloroso, e insieme necessario, il percorso verso la consapevolezza di sé.

🏫 Il collegio e la pedagogia del terrore

Chi ha vissuto l’esperienza di un collegio religioso – o di qualsiasi istituzione educativa fondata più sul castigo che sull’ascolto – troverà nelle pagine de Il cerchio chiuso un’eco dolorosa e potente. Il romanzo non indulge nella retorica né nell’esagerazione, ma racconta con precisione chirurgica i meccanismi di un sistema repressivo in cui la disciplina diventa lo scopo, e non il mezzo, dell’educazione. È la rappresentazione spietata di un luogo in cui la paura non solo educa, ma plasma, scolpisce, condiziona profondamente l’identità delle giovani ragazze.

Il collegio Sant’Eufemia non è un semplice edificio scolastico: è un mondo chiuso, autoreferenziale, separato dalla realtà. Un luogo dove il tempo sembra essersi fermato, dove il corpo non appartiene alla persona ma alla struttura, e dove ogni atto di autonomia viene letto come ribellione. Qui, le suore non incarnano la spiritualità, ma un controllo rigido, quasi militare. Il gesto educativo si è svuotato del suo significato originario: non accompagna, ma piega. Non apre, ma chiude.

In questo contesto, la psicologia della protagonista viene lentamente ma inesorabilmente messa alla prova. Maria non è solo costretta ad adeguarsi a regole assurde – capelli raccolti, schiena dritta, sorrisi forzati – ma viene privata del diritto di sentire, di esprimere, di pensare. Il suo corpo è il primo campo di battaglia: ogni tic, ogni movimento involontario, ogni reazione emotiva viene letta come una provocazione. I tic nervosi di Maria, lungi dall’essere accolti come un segnale di disagio o stress post-traumatico, vengono invece puniti, in un crescendo di incomprensione che diventa vero e proprio accanimento.

Punizioni corporali, umiliazioni pubbliche, isolamento: strumenti che non correggono, ma deformano. L’ansia si trasforma in colpa. La sofferenza si interiorizza. Maria non può permettersi nemmeno di essere triste. Non può permettersi di essere fragile. Qualsiasi emozione non in linea con il decoro imposto viene repressa con la frusta, con lo sguardo accusatore, con la condanna morale.

La trasgressione di Maria non è urlata. Non lancia sassi contro le finestre del convento. La sua colpa è pensare, farsi domande, non accontentarsi delle risposte precotte. È una ribellione silenziosa ma potentissima, quella di una mente giovane che rifiuta l’annullamento, che si difende dalla violenza con l’immaginazione, con la complicità segreta di un’amicizia, con piccoli gesti di resistenza. Ed è proprio questo che spaventa le autorità del collegio: la consapevolezza che il pensiero critico è più pericoloso di qualsiasi atto di disobbedienza.

Nicoletta Bosio mette in scena una vera e propria pedagogia del terrore, mascherata da educazione religiosa. E lo fa senza mai perdere il centro umano del racconto: la sofferenza psicologica che genera quel sistema. Maria non viene solo punita nel corpo, ma interiormente scollata, spezzata, costretta a recitare un ruolo pur di sopravvivere. Nasce così il distacco tra ciò che sente e ciò che mostra. È la genesi della dissociazione, del meccanismo di adattamento che tante bambine e bambini sviluppano per resistere a contesti disfunzionali: la maschera come scudo, l’ubbidienza come strategia, il silenzio come unica forma di sicurezza.

E il romanzo, con dolorosa chiarezza, ci costringe a porci delle domande scomode:
🔹 Quante Maria abbiamo incontrato o siamo stati, nella nostra vita?
🔹 Quanto dolore abbiamo imparato a mascherare, per non deludere chi amavamo?
🔹 Quante volte l’educazione è servita solo a spegnere una scintilla che invece avrebbe potuto illuminare?

Il cerchio chiuso non si limita a raccontare, ma denuncia. E lo fa con una forza che lascia il segno. In un mondo che ancora troppo spesso idealizza l’obbedienza come virtù assoluta, questo romanzo ci ricorda che la disobbedienza del cuore – quando nasce dal dolore e dalla ricerca di verità – non è peccato, ma coraggio.

🤝 L’amicizia come ancora di salvezza

Nel buio emotivo e materiale del collegio Sant’Eufemia – fatto di rigore, paura e repressione – l’incontro tra Maria e Maddalena è uno squarcio di luce inattesa. Non si tratta di una semplice conoscenza tra compagne di classe, ma di qualcosa di più profondo, quasi istintivo: due anime ferite che si riconoscono nel silenzio, due sguardi che si cercano senza bisogno di spiegazioni. È un’amicizia che nasce tra le crepe, tra i lividi sulle mani e le parole sussurrate, un legame che diventa, pagina dopo pagina, un vero e proprio atto di resistenza emotiva.

Maddalena, con i suoi capelli spettinati, le sue mollette ridicole e la sua lingua tagliente, irrompe nella vita di Maria come una forza vitale. È l’opposto di ciò che il collegio vuole che siano: libera, indisciplinata, schietta. Ma sotto la corazza ribelle, anche lei è una ragazza fragile, piena di paure e di cicatrici. In lei, Maria trova la sua speculare. Maddalena la prende sul serio, la guarda senza giudicarla, ride con lei, piange con lei. In un luogo in cui tutte le relazioni sono fondate sul potere e sul controllo, la loro è l’unica relazione che nasce sulla base della libertà.

Dal punto di vista psicologico, l’impatto che questa amicizia ha su Maria è enorme. Per la prima volta, ha qualcuno con cui essere sé stessa. Il loro duo, che chiamano affettuosamente MAMÀ, non è solo un gioco di nomi: è la costruzione di un rifugio, di una seconda pelle, di un linguaggio segreto che solo loro comprendono. In quel nome si racchiude il bisogno di sopravvivere alla solitudine, di ridere anche quando tutto intorno spinge al silenzio e alla vergogna, di immaginare un domani diverso.

Bosio disegna questo rapporto con una delicatezza rara: non lo idealizza, non lo strumentalizza. Ce lo mostra nella sua quotidianità fatta di piccoli atti di complicità, sguardi scambiati durante la danza, gesti sovversivi come un bottone slacciato o una frase detta con ironia. In quella quotidianità apparentemente banale si gioca però la salvezza psichica delle protagoniste. La loro amicizia diventa uno spazio sicuro, un luogo interiore dove le regole del collegio non possono entrare.

La psicologia di questo legame è centrale. In contesti chiusi e autoritari, come quello descritto nel romanzo, l’identità personale rischia di spegnersi sotto il peso della normalizzazione. Maddalena è la miccia che impedisce a Maria di spegnersi del tutto. La aiuta a conservare la memoria di ciò che è autentico in lei. La incoraggia a non cedere alla maschera, a non farsi inghiottire dal ruolo della brava figlia, della buona cristiana, della scolara modello.

Anche Maddalena, pur con la sua apparenza forte e dissacrante, trae linfa da questa amicizia. Maria le offre una forma di stabilità, uno specchio meno duro, la possibilità di essere accolta nonostante i suoi difetti. Non c’è gerarchia tra loro, non c’è invidia. Solo reciprocità. Insieme si proteggono, si nutrono, si difendono. E come due piccole attrici sulla scena della vita, imparano a recitare per sopravvivere, a interpretare la parte che ci si aspetta da loro… ma solo all’esterno. Dentro, nel loro cuore, restano libere.

In questo, Il cerchio chiuso compie una delle sue operazioni più commoventi e sottili: ci ricorda che l’amicizia, quella vera, quella che nasce nell’adolescenza e ci scava dentro per sempre, non è un semplice rapporto tra due individui, ma un’ancora psicologica, un atto rivoluzionario, una dichiarazione di identità.

MAMÀ, per Maria e Maddalena, è l’unico modo per dire al mondo:
“Esistiamo, e non riuscirete a spegnerci.”

✍️ Uno stile essenziale e affilato

La scrittura di Nicoletta Bosio è un bisturi che incide con precisione chirurgica senza mai cedere alla tentazione del compiacimento. È asciutta, sì, ma mai fredda. Essenziale, ma ricca di significato. Ogni parola è scelta con cura, ogni dialogo vibra di una verità difficile da ignorare. I silenzi, le pause, gli sguardi non detti parlano più di mille spiegazioni. Le emozioni scorrono come fiumi sotterranei, trattenute a lungo, ma destinate a esplodere con forza e autenticità.

Bosio non si nasconde dietro metafore rassicuranti o orpelli stilistici. Non cerca la bellezza della frase ad effetto, ma la potenza della verità. La sua prosa è uno specchio fedele della psicologia dei suoi personaggi, soprattutto quella di Maria, di cui ci restituisce con intensità ogni esitazione, ogni sussulto, ogni lotta interiore. È uno stile che rispetta l’intelligenza del lettore e lo coinvolge senza manipolarlo, lasciandogli spazio per respirare, riflettere, farsi domande.

🔄 Il cerchio si chiude… o forse si spezza?

Il titolo del romanzo è emblematico. “Il cerchio chiuso” evoca inizialmente un’idea di fatalità, di condanna, di un ciclo che si ripete senza via d’uscita. Ma leggendo, comprendiamo che quel cerchio – fatto di silenzi forzati, croci imposte, obbedienza cieca e colpe non nominate – può anche essere interrotto. Il cerchio può chiudersi, sì, ma anche rompersi. E quando accade, si apre lo spiraglio per un’altra narrazione: quella della libertà, della consapevolezza, della scelta.

Bosio ci mostra che la rottura del cerchio non è indolore. Richiede coraggio, ribellione, perdita. Ma è anche l’unica via per uscire dal buio, per riscrivere la propria storia, per passare dalla paura alla possibilità. Quel gesto, piccolo o grande che sia, è rivoluzionario. E nel compierlo, Maria diventa tutte noi. Tutti noi.

In conclusione

Il cerchio chiuso è un romanzo che tutti dovrebbero leggere. Non solo per la sua qualità letteraria, ma per il valore umano che trasmette. Per ricordarci quanto sia facile, dietro la maschera dell’educazione, nascondere l’abuso. Per riflettere su quante Maria abbiamo incontrato nella vita, e quante Maddalena avremmo voluto essere. Perché la fede, quella autentica, non è mai imposta: nasce dal dubbio, non dalla paura.

Ed è proprio in quella crepa, in quel dubbio, che può germogliare la salvezza.
Perché ogni cerchio chiuso, prima o poi, merita una fessura.
Una voce.
Una fuga.
Una verità.

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Davide C🎵 A dare ancora più voce alla storia di Maria è nata anche una canzone originale ispirata al romanzo, un brano che trasforma in musica le emozioni, le ferite e la speranza che attraversano le pagine del libro. Un modo ulteriore per sentire – nel senso più profondo – ciò che Nicoletta Bosio ha voluto raccontare:
la forza silenziosa di chi resiste, di chi sceglie di non spegnersi, di chi – anche da sola – resta in piedi.

Davide Cipollini

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Grazie per aver votato!

2 thoughts on “Il cerchio chiuso – Quando la fede diventa prigione

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