
La conosco bene” di Franca Gaita – Un romanzo dell’anima tra amicizia, memorie e liberazione interiore
Quando un incontro casuale può cambiare tutto.
È da questa premessa semplice e autentica che prende vita La conosco bene, il sorprendente romanzo d’esordio di Franca Gaita, psicologa vicentina che ha saputo tradurre in forma narrativa anni di ascolto, di riflessione sul comportamento umano e di immersione nei meccanismi profondi dell’anima. Pubblicato nel 2024, il libro si rivela ben più di un racconto: è un vero e proprio viaggio nei labirinti della psiche, nei meandri della memoria, nella solitudine e nella forza interiore che spesso nascono proprio dal dolore.
In un’epoca in cui tutto appare frenetico, performativo e superficiale, Franca Gaita invita a rallentare, ad ascoltare, a guardare oltre l’apparenza. Lo fa attraverso la storia di due donne che si incontrano per caso – una narratrice curiosa e attenta, l’altra, Elisabetta, segnata da un passato difficile – e che, conoscendosi, cominciano a rispecchiarsi l’una nell’altra. Quel che prende forma è un’esperienza profondamente psicologica, che attraversa i temi del trauma, del rifiuto, dell’identità spezzata e della possibilità di guarigione tramite il racconto e l’empatia.
Il romanzo è costruito come una lunga seduta di psicoterapia condivisa, in cui il lettore si sente testimone diretto di un’apertura dell’anima. Franca Gaita, con il suo sguardo clinico ma mai freddo, fa emergere ferite infantili mai rimarginate, meccanismi di difesa, repressioni affettive, ma anche strategie inconsce di sopravvivenza emotiva. È il peso di un padre autoritario e di una madre anaffettiva a plasmare la personalità fragile e al tempo stesso tenace di Elisabetta. Ma è proprio attraverso l’ascolto e il riconoscimento – elementi fondamentali in ogni processo psicologico autentico – che la protagonista riesce a compiere un primo passo verso la liberazione interiore.
Questo libro è un esercizio di psicologia narrativa, nel senso più alto del termine: ogni pagina ci ricorda quanto sia importante la parola, il ricordo condiviso, la possibilità di dare un senso a ciò che è stato. Perché i traumi non elaborati continuano a vivere dentro di noi, influenzano il nostro modo di amare, di scegliere, di esistere. La conosco bene ci insegna che il dolore può essere rielaborato, non rimosso, e che attraverso il legame autentico – anche se nato per caso – è possibile riscrivere il proprio copione di vita.
Un romanzo umano, femminile, terapeutico. Un’opera profondamente universale.
Due donne, una sola anima divisa in due corpi
La voce narrante – mai nominata esplicitamente, ma riconoscibile nella sua fragile eppure determinata umanità – incontra Elisabetta, una donna dallo sguardo opaco, segnato da un passato che grida pur nel silenzio. Lo scenario è apparentemente banale: una libreria, un bar, un giorno di pioggia a Firenze. Ma dietro quell’incontro casuale tra due sconosciute si cela la possibilità – e la promessa – di una riscoperta interiore profonda. È proprio in quella pioggia, in quella fetta condivisa di Sacher, che inizia un legame speciale, che sfugge alla logica e si radica in un bisogno reciproco di riconoscimento e comprensione.
Elisabetta non è solo un personaggio: è un condensato vivente di ferite infantili, abbandoni emotivi, silenzi carichi di dolore. Eppure è anche una donna che cerca, che lotta, che sopravvive e si espone. L’altra, la narratrice, diventa quasi uno specchio riflessivo, lo strumento attraverso cui la protagonista riesce finalmente a raccontarsi, forse per la prima volta. Tra le due si crea una dinamica che richiama quella del rapporto terapeutico, in cui la fiducia nasce lentamente, con pudore, ma si intensifica grazie all’ascolto autentico e all’assenza di giudizio.
Il viaggio che ne deriva è un percorso psichico, un’analisi involontaria ma profondissima che fa emergere l’infanzia repressa, il dolore del rifiuto genitoriale, la difficoltà di costruire una propria identità quando l’amore – quello che forma, che accoglie – è stato negato sin da piccoli. L’interazione tra le due donne permette la rievocazione, la verbalizzazione e infine la simbolizzazione del trauma. È in questo processo che il romanzo acquisisce una dimensione psicologica potentissima: si muove come un flusso di coscienza elaborato, che attraverso il dialogo e la memoria diventa cura.
Franca Gaita, con la sua formazione psicologica, mette in scena il potere terapeutico della parola e della relazione. Le emozioni trattenute da Elisabetta – la rabbia, la paura, la vergogna, la colpa – prendono voce, corpo e senso nel confronto con l’altra donna. La narrazione diventa così uno spazio protetto dove la protagonista può attraversare il suo dolore, senza esserne più schiacciata.
Ma ciò che rende davvero unica questa relazione è l’effetto specchio: le fragilità di una risvegliano le vulnerabilità dell’altra. Anche la narratrice, all’apparenza più centrata e sicura, inizia un processo di introspezione che la costringe a guardare i propri dolori mai confessati. Si ha la sensazione che due anime, ferite in modi diversi ma profondamente compatibili, si stiano ricucendo a vicenda. Non si tratta solo di amicizia, ma di riconoscimento empatico: un livello di contatto profondo in cui si impara, insieme, a perdonare, a ricordare senza più soffrire, a rinascere.
La conosco bene non è quindi la storia di una sola donna, ma di tutte quelle identità che si sono sentite negate, disprezzate, rifiutate. E che, grazie a uno sguardo complice e a una parola accolta, possono tornare a vivere.
Una narrazione intensa, confessionale, vera
La struttura del romanzo è volutamente diaristica e intima: ogni capitolo è una confidenza, un tassello del mosaico che ricompone l’identità frantumata di Elisabetta. Franca Gaita adotta uno stile diretto ma evocativo, capace di restituire con forza la complessità emotiva della protagonista: il padre autoritario, la madre anaffettiva, il fratello con sindrome di Down, le umiliazioni, i sogni spezzati e il faticoso processo di emancipazione personale.
Tra le pagine si muove una Firenze viva e quotidiana, fatta di bar, giardini, mostre e chiacchiere tra donne. Ma lo sfondo reale è il paesaggio interiore di due esistenze che, intrecciandosi, si guariscono a vicenda.
Un romanzo sull’invisibilità delle ferite
Il titolo “La conosco bene” è emblematico: conoscere l’altra è anche conoscere sé stesse. Il dolore di Elisabetta non è solo suo: parla al lettore, lo rispecchia. L’autrice riesce in una forma di empatia narrativa che non scade mai nella retorica o nel pietismo. Ogni aneddoto, ogni ricordo – anche quelli più grotteschi o apparentemente frivoli – ha un peso specifico nella ricostruzione della dignità di Elisabetta, e nella costruzione di una sorellanza profonda tra donne ferite ma capaci di resilienza.
Una storia che è anche denuncia e riscatto
Sotto la superficie della narrazione si cela una critica potente alla cultura patriarcale, al silenzio imposto, ai traumi non elaborati dell’infanzia, alle famiglie che diseducano all’amore. Ma il libro non si chiude nel dolore: anzi, è proprio attraverso il racconto, la condivisione, l’amicizia e l’ironia che la protagonista (e la narratrice) riescono a trovare uno spazio di libertà, consapevolezza e guarigione.
Perché leggere questo libro
Perché La conosco bene è una storia vera, senza filtri, che parla delle ferite invisibili che ci portiamo dentro e del coraggio necessario per accettarle, elaborarle, trasformarle. È un romanzo che non si limita a raccontare, ma coinvolge profondamente il lettore, lo costringe dolcemente a specchiarsi, a riconoscersi nei silenzi, nei nodi emotivi, nei desideri rimossi dei personaggi. Non è solo letteratura, è anche una forma di terapia narrativa.
La scrittura di Franca Gaita tocca corde psicologiche sottili e profonde: esplora con sensibilità i temi della genitorialità tossica, della costruzione del sé in ambienti emotivamente carenti, della resilienza femminile, del rimodellamento dell’identità dopo una lunga esposizione al rifiuto e alla solitudine. In ogni dialogo tra le protagoniste, in ogni flashback, si avverte la tensione verso un punto di equilibrio interiore, faticoso ma possibile.
Leggere questo libro significa fare un piccolo viaggio dentro di sé, riscoprendo quanto le esperienze dell’infanzia – anche quelle apparentemente insignificanti – condizionino le nostre insicurezze adulte, i nostri automatismi relazionali, il modo in cui chiediamo (o non chiediamo) amore. Significa comprendere che le emozioni non ascoltate si trasformano in blocchi, e che solo l’ascolto autentico – sia da parte dell’altro che di noi stessi – può sciogliere i nodi del passato.
La conosco bene accarezza e graffia. Consola, ma nello stesso tempo interroga. Non edulcora mai, ma nemmeno condanna. Lascia spazio al dubbio, al perdono, al desiderio di rinascere. È un libro che abbatte il tabù della fragilità non come debolezza, ma come parte vitale e generativa dell’essere umano.
È anche una storia sull’amicizia tra donne, sulla sorellanza emotiva, sul bisogno reciproco di essere viste e riconosciute nella propria verità, senza finzioni. E proprio in questa dimensione relazionale si rivela il valore salvifico del romanzo: la cura non passa dalla distanza, ma dalla prossimità, dall’ascolto, dall’empatia.
È un’opera da leggere tutta d’un fiato, travolti dalla voce narrativa che sa essere pungente e tenera, lucida e commossa. Ma è anche un libro da rileggere con calma, magari in silenzio, per assaporarne le sfumature, per lasciarsi accompagnare in un percorso intimo e profondo che ha il sapore di una vera liberazione.
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