
Stanza 403 di Simone Santeramo: quando l’ospitalità diventa introspezione
di Davide Cipollini
C’è un posto nel cuore di Matera che è più di un semplice hotel. È un luogo sospeso nel tempo, incastonato nella pietra viva di una delle città più antiche del mondo. Le stanze, scavate nella roccia millenaria, raccontano storie silenziose di famiglie, contadini, animali e umanità che ha respirato quell’aria prima che diventasse meta turistica. I dettagli in tufo, scolpiti con pazienza e rispetto, e le terrazze affacciate su un paesaggio che toglie il fiato, sembrano osservare i visitatori più di quanto vengano osservate.
Qui, tra le luci calde del tramonto e il rumore sordo dei passi sui vicoli in pietra, si consuma ogni giorno un piccolo teatro umano fatto di arrivi, partenze, sguardi fugaci e confessioni inattese. In questo scenario suggestivo, Simone Santeramo ambienta Stanza 403, romanzo pubblicato da Capponi Editore nel 2025. Un libro che non si limita a raccontare una storia, ma ci invita a esplorare ciò che si cela dietro le quinte dell’accoglienza turistica, tra introspezione personale e dinamiche invisibili, tra la vita vissuta e quella soltanto osservata.
Il romanzo è ambientato in un microcosmo fatto di camere diverse, richieste eccentriche, rituali ripetuti e imprevisti da gestire, ma è anche, e soprattutto, un viaggio dentro l’anima di chi ogni giorno deve mostrarsi impeccabile, disponibile, gentile. Senza sbavature. Senza pause. Un diario segreto custodito sotto le chiavi della reception, che si apre per raccontare – con delicatezza e verità – cosa accade quando le porte si chiudono e restano solo i pensieri.
Un diario nascosto sotto le chiavi della reception
Il protagonista, Andrea, è un receptionist esperto e attento, figura centrale e silenziosa di un hotel scavato nella pietra dei Sassi di Matera. In apparenza è tutto quello che ci si aspetta da chi svolge un mestiere fatto di accoglienza: gentile, efficiente, rassicurante. Ma dietro quel banco elegante e ordinato, dove ogni gesto è calibrato e ogni parola dosata con garbo, Andrea cela un mondo interiore ricchissimo, fatto di pensieri in transito, proprio come gli ospiti che ogni giorno varcano la soglia dell’hotel.
La sua professione non è solo un mestiere, è un modo di essere. Andrea osserva, registra, riflette. Ogni dettaglio, ogni micro-espressione, ogni anomalia nella routine quotidiana è per lui un segnale. E proprio questa sua capacità di cogliere ciò che spesso agli altri sfugge lo rende un narratore straordinario. Simone Santeramo ci affida la sua voce per raccontare non solo l’andirivieni dei clienti, ma anche le sue stanchezze, i suoi automatismi, le sue paure. La necessità di avere sempre tutto sotto controllo – perfino il posto a tavola, sempre con le spalle al muro – diventa simbolo di un bisogno più profondo: quello di proteggersi da un mondo che spesso è imprevedibile e disordinato.
Andrea è un osservatore meticoloso, a tratti maniacale, ma mai freddo. Anzi, si emoziona per la felicità degli altri, prova empatia per chi è solo, si interroga sui non detti, sulle dinamiche tra le coppie, sui silenzi troppo lunghi tra genitori e figli. Dietro la maschera del professionista impeccabile c’è un uomo che vive intensamente ogni frammento di umanità che gli passa accanto. E ogni storia lo cambia un po’.
Santeramo costruisce attorno a lui un vero e proprio diario di bordo, scritto con discrezione e malinconia, dove il ritmo della narrazione rispecchia quello delle giornate in hotel: lento, ciclico, ma costellato di piccoli colpi di scena. Attraverso la sua voce narrativa – lineare, limpida, ma incredibilmente profonda – ci ritroviamo spettatori di un mosaico di vite che passano, si incrociano, lasciano segni o scivolano via. A volte lo fanno con una frase gentile, altre con una richiesta assurda, altre ancora con un gesto che lascia il protagonista – e noi lettori – con un dubbio che non si dissolverà mai del tutto.
Ogni stanza ha una storia. Ogni check-in è una porta che si apre non solo su un ambiente fisico, ma su un piccolo mondo da decifrare. C’è chi cerca attenzione, chi vuole essere dimenticato, chi porta con sé un dolore nascosto e chi, come la misteriosa famiglia Lenzi della Stanza 403, insinua il sospetto che dietro una vacanza si celi qualcosa di più cupo. È così che l’autore trasforma l’hotel in uno spazio di osservazione intimo e discreto, quasi sacro, dove ogni dettaglio può diventare chiave per comprendere l’altro – o per perdersi ancora di più nei suoi silenzi.
La stanza che inquieta
Il cuore pulsante del romanzo è la Stanza 403, una camera come tante, ma che diventa progressivamente lo spazio simbolico in cui il sospetto prende forma e si fa narrazione. Viene assegnata a una famiglia apparentemente normale: un uomo, una donna e una bambina. Ma fin da subito qualcosa non torna. Una richiesta, all’apparenza banale, si fa subito presagio: una camera con “meno finestre possibile”.
È un dettaglio che colpisce Andrea, il protagonista, e che finisce per insinuarsi in lui come un tarlo. Perché chiedere una stanza con poca luce? Cosa si vuole nascondere? Da cosa ci si vuole difendere? La richiesta è tanto precisa quanto fuori dal comune, e da lì in poi nulla sarà più neutro: ogni gesto, ogni sguardo, ogni esitazione della famiglia Lenzi viene osservato con crescente inquietudine.
Santeramo gioca magistralmente con l’ambiguità. Il romanzo non si trasforma mai in un giallo esplicito, ma coltiva un’inquietudine costante che nasce proprio dall’ordinario, da ciò che dovrebbe essere innocuo. È nei gesti minimi che si avverte la dissonanza: la madre che sorride ma trattiene un’emozione, il padre che si impone con un’autorità silenziosa ma implacabile, la bambina che sembra rifugiarsi nella presenza della madre, più che nel gioco. La Stanza 403, con il suo scuretto chiuso e l’aria ovattata, si fa teatro muto di qualcosa che non si vede, ma si avverte.
Andrea osserva, ma non interviene. E proprio in questa distanza forzata, in questo limite del ruolo, si genera tensione. Non può sapere cosa accade davvero oltre quella porta. Può solo ipotizzare. Eppure, il suo istinto – affinato da anni di contatto umano – gli dice che qualcosa non va. Un abbraccio trattenuto, un “grazie” pronunciato con voce stanca, una reazione spropositata per un tè servito al posto di un cappuccino… Tutto contribuisce a costruire una narrazione parallela, fatta di non detti e impressioni.
Il lettore si ritrova accanto ad Andrea, coinvolto in una forma di “voyeurismo emotivo”, costretto a scrutare i margini di una storia che forse non verrà mai davvero svelata, ma che lascia segni profondi. Il romanzo, in questo senso, non offre risposte, ma solleva domande scomode: quanto possiamo cogliere della sofferenza altrui? E cosa ci impedisce, davvero, di agire?
Santeramo riesce nell’impresa di rendere angosciante il quotidiano, di trasformare un ambiente di lusso e relax in un palcoscenico dove si percepisce il peso del controllo, del dominio, del sacrificio silenzioso. La Stanza 403 diventa così un simbolo: non solo un luogo fisico, ma il perimetro di ciò che non vogliamo vedere. O che, forse, vediamo troppo bene.
La stanza che inquieta
C’è una stanza, nel cuore silenzioso di un hotel materano, che più di tutte lascia un segno. È la Stanza 403. E non per ciò che contiene, ma per ciò che suggerisce. Una camera con meno finestre possibile, richiesta in anticipo da un uomo distinto, accompagnato da sua moglie e dalla loro bambina. Nulla, a prima vista, di strano. Eppure è proprio da lì che inizia il turbamento, sottile ma persistente. Perché in quella richiesta c’è già una barriera: alla luce, agli sguardi, forse alla verità.
Simone Santeramo, con la precisione di un entomologo dell’anima, ci conduce lentamente dentro questo spazio chiuso, senza mai davvero aprirlo del tutto. Lo fa attraverso gli occhi attenti di Andrea, receptionist empatico e sensibile, che capta tutto ciò che gli altri non vedono o non vogliono vedere. Un gesto brusco, un sorriso stonato, una parola taciuta… ogni dettaglio diventa indizio. Ma nessuna certezza viene offerta. Solo domande, e un’inquietudine crescente che si annida nel lettore come una sensazione impossibile da scrollarsi di dosso.
È lì, nel mistero domestico e intimo di quella camera, che si gioca la partita più intensa del romanzo. Non è un thriller, Stanza 403, ma ha la stessa tensione emotiva dei romanzi psicologici più raffinati. Non c’è un delitto, forse, ma c’è un disagio che pulsa. Non c’è una fuga, ma si percepisce un bisogno disperato di protezione, o forse di controllo. Non c’è sangue, ma c’è qualcosa di molto più tagliente: lo sguardo di una donna che si fa fragile nel momento in cui dovrebbe gioire, l’abbraccio a una figlia che diventa rifugio, la presenza silenziosa di un uomo che fa ombra più che luce.
Santeramo è maestro nell’arte del non detto. Ci tiene col fiato sospeso con ciò che non mostra, con ciò che si intuisce tra le righe, con quella sensazione che qualcosa stia accadendo… ma altrove, in un altrove che solo l’immaginazione – o il coraggio – può raggiungere.
Ed è proprio questa la forza magnetica di Stanza 403: ti fa sentire complice, testimone, partecipe. Ti spinge a leggere pagina dopo pagina con il desiderio di capire, ma anche con la paura di scoprire troppo. È un romanzo che scava, lentamente, come l’acqua sulla pietra, e alla fine lascia un solco profondo.
Se ami le storie che sanno suggerire più che spiegare, se ti affascinano i romanzi in cui il vero protagonista è ciò che si cela dietro una porta chiusa, allora questo libro è per te. Stanza 403 non si legge: si vive, si respira, si teme.
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Uno stile che avvolge
Lo stile di Santeramo è una carezza narrativa. Essenziale ma evocativo, non si perde mai in orpelli inutili. Riesce a rendere suggestiva anche la routine, a trasformare l’ordinario in qualcosa che merita di essere raccontato. Il tono è sempre misurato, spesso riflessivo, ma mai distaccato: ogni parola è scelta con cura, ogni emozione trova il suo spazio naturale nel racconto.
Conclusione: un romanzo che resta
Stanza 403 è un romanzo che si legge tutto d’un fiato, ma che resta nella mente e nello stomaco. Perché parla di noi, del nostro bisogno di controllo, di sicurezza, di bellezza. Ma anche del nostro bisogno, profondo, di essere visti davvero.
Santeramo ci accompagna in un viaggio che parte da una reception ma arriva molto più lontano: nelle pieghe delle relazioni, nelle stanze chiuse dei silenzi familiari, nei piccoli gesti che svelano – o proteggono – verità nascoste.
Un libro da leggere e da portare con sé, come una chiave dimenticata in tasca che, chissà, potrebbe aprire porte che pensavamo chiuse da tempo.